«Sinodo, che marasma»

By 3 Novembre 2010Reportage

«In ottocento anni di storia valdese, una cosa simile non s’è mai vista. Tanto da far ritenere che, così com’è, la chiesa valdese sia finita»: nonostante siano passati più di due mesi dal Sinodo che ha votato a favore della benedizione alle coppie omosessuali, il senatore Lucio Malan è battagliero come non mai. Non lo ha fermato la sgradevole polemica con il settimanale Riforma, né un doppio intervento al cuore che lo ha costretto a rallentare i suoi impegni per un intero mese («mi hanno acciuffato per un pelo»): Malan, insieme ai suoi compagni d’avventura, continua a portare avanti la sua battaglia per riportare la chiesa valdese dentro i canoni della «fedeltà al vangelo».

Senatore, la situazione attuale all’interno della chiesa valdese…
… è un marasma. Approvando la benedizione alle coppie omosessuali, il Sinodo ha preso una decisione che non gli competeva. L’atto fondativo della chiesa valdese, approvato nel 1561, dice chiaramente che il fondamento di ogni decisione deve essere la Bibbia, che il Sinodo è sovrano finché resta nell’ambito del “patto integrativo” tra le chiese, e che non può concedere alcunché senza il consenso di tutte le chiese. Affidare, come si è fatto, alle singole comunità le “benedizioni” significa inficiare il Patto.

Non è però un mistero che la chiesa valdese, con questa decisione e varie posizioni precedenti, si sia accattivata ampie simpatie negli ambienti che rappresentano il mondo omosessuale.
Sicuramente, ma sono i club a vivere di “simpatie”. Se mi si dice che è un modo per attirare membri da un certo ambiente, potrei rilevare che sia a Marsala [dove si sono celebrate le “nozze gay”, ndr], sia a Roma [dove si è accettata la presentazione di un bambino da parte due genitori dello stesso sesso, ndr], non ci sono state nuove adesioni: nel primo caso le due donne erano del nord Europa, a Roma si trattava di simpatizzanti.
E poi, diciamo la verità, manca la coerenza: nell’ambiente valdese ci ritroviamo da un lato una disciplina matrimoniale sorprendentemente rigida, che risale ai primi anni Settanta, e dall’altro accarezziamo le fughe in avanti dei matrimoni gay.

Le risponderanno che la “fuga in avanti” non è altro che un’applicazione concreta della prospettiva liberale sulla fede cristiana.
Già. Ma se, come sostengono i campioni di questa dottrina, «La Bibbia non è la Parola di Dio, contiene la parola di Dio», allora perché le diamo tutto questo valore? In questo caso diventa un libro come gli altri. In fondo quasi da ogni libro si possono ricavare dei valori edificanti: pensiamo, per dirne uno, ai Promessi Sposi. Se la Bibbia non è Parola di Dio, perché continuiamo a fingere che sia qualcosa di più? Se un brano biblico vale di più e un altro vale di meno, allora facciamo come altri prima di noi, e sottraiamo la lettura delle Scritture al volgo.

È un problema che non nasce oggi, però…
Certo, ma oggi ha raggiunto livelli intollerabili. Vogliamo scartare parti della Bibbia? E in base a quali criteri? Un’analisi destrutturata può servire a capire meglio un testo, ma non deve essere una scusa per dire che quel testo è influenzato dall’epoca in cui venne scritto, e che quindi oggi risulta inapplicabile. Che poi, paradossalmente, chi sostiene il metodo storico-critico dimostra di conoscere poco la storia…

In che senso?
Quando si sostiene che i testi biblici dove si parla di omosessualità sono troppo duri per i parametri odierni perché vennero scritti in un’epoca troppo legata alla moralità tradizionale, evidentemente non si conosce la storia: all’epoca in cui vennero scritte quelle parole c’era nella società un’assoluta tolleranza nei confronti della diversità sessuale, basti pensare a Cesare o all’imperatore Adriano. Un testo del primo secolo, quindi, avrebbe dovuto essere più comprensivo verso l’omosessualità rispetto a oggi.
Ma in fondo sa qual è il vero problema?

Dica.
Il problema è che noi, dall’alto dell’illuminato XXI secolo, ci permettiamo di dare la pagella all’apostolo Paolo. Non dico che dobbiamo essere letteralisti, ma nemmeno il suo opposto.
La chiesa è composta da peccatori, inclusi gli omosessuali: ma una cosa è riconoscere questo dato di fatto, diverso è dare una esplicita benedizione a un comportamento che passi della Scrittura condannano. Sarebbe opportuno fermarsi e riflettere: se non altro perché, allo stato dell’arte, non sappiamo cosa significhi dare un riconoscimento liturgico a certi comportamenti.

Uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene questo atto è che “Dio vuole l’amore, non lo giudica”.
Se parliamo di amore in assoluto posso concordare: “contro l’amore non c’è legge”, dice la Bibbia. Ma attenzione a non far dire alla Bibbia quello che vogliamo dica: se partiamo dal principio che ogni tipo di amore è lecito, come potremo condannare comportamenti come l’incesto? Una decisione raffazzonata come quella del Sinodo rischia di aprire una breccia, portando all’estensione verso altri tipi di rapporto.

Come nasce l’Appello che, nella settimana precedente al Sinodo, avete pubblicato su Riforma?
Nasce dalla constatazione che era l’unica cosa da fare, quando abbiamo capito che al Sinodo ci sarebbe stata un’accelerazione in quella direzione. Non sapevamo se, all’interno del Sinodo, ci sarebbe stato dissenso verso un simile atto, e con l’Appello abbiamo voluto dire che esistevano anche voci contrarie.

Alla fine è andata come sappiamo.
Sì, su 180 membri, 9 hanno votato contro e 29 si sono astenuti. Ma, a ben guardare, proprio questo elemento dà una valenza inquietante all’approvazione: anche ammettendo che davvero il 60% dei membri che hanno votato “sì” fosse favorevole, sarebbe stata una maggioranza troppo risicata per una decisione di questa portata. Il pastore della chiesa di Marsala, Esposito – che ha il merito della sincerità -, aveva dichiarato «ben venga la spaccatura». Ora questa politica di divisione, che non esito a definire stupefacente, è stata promossa al massimo livello.

E poi c’è stata l’incognita degli astenuti.
Non essendo stato presente, non so i nomi di chi ha votato “no”, né chi si è astenuto. Ma sono stati numerosi, e tutto sommato solidali con noi: al Sinodo, come al Senato, non votare “sì” è un modo gentile per dire “no”.

Prima dell’Appello, le cronache registrano un confronto epistolare tra lei e il pastore Paolo Ricca.
Sì, ci siamo confrontati sull’episodio del battesimo impartito a Roma, e proprio a margine di questo dibattito è nata l’idea di un sito, valdesi.eu, e poi dell’Appello.

Un caso unico?
No, ce ne sono stati vari, in passato: nel 1976 venne inoltrata al Sinodo una “Petizione” per evitare che la chiesa in quanto tale assumesse posizioni politiche. Lo firmarono nomi come Roberto Nisbet, Arnaldo Genre, Guido Ribet, e tra l’altro da quel documento nacque, dopo poche settimane, il Movimento di Testimonianza evangelica valdese.

C’era anche lei?
Sì, per quanto all’epoca fossi giovanissimo, anche in quell’occasione aggiunsi la mia firma.

Come andarono le cose in quell’occasione?
La petizione venne esaminata dal Sinodo, ma ignorata poi nella prassi dalla maggioranza della chiesa, allontanando così molti che non si riconoscevano in una “chiesa militante”. Alcuni hanno aderito ad altre denominazioni, altri sono stati abbandonati a se stessi. A guardare i fatti, mi viene da pensare che questo allontanamento sia stato visto con soddisfazione dalla nomenklatura, ben contenta che nessuno ostacolasse la linea ferreamente tenuta dalla leadership. Che, per inciso, ha una continuità con quella di oggi.

Nell’Appello sollecitate il rispetto della “ragion d’essere della chiesa”. Ossia, nel concreto?
La chiesa deve essere testimone del vangelo di Cristo, e portare la Buona Novella. Non escludo che la chiesa possa fare anche altro, a cominciare dalle opere diaconali, ma quanto sopra è premessa indispensabile, tutto il resto ha significato solo alla luce di ciò. La chiesa valdese ha perso aderenti in maniera evidente, ha chiuso opere una dopo l’altra, per cui direi che forse, anziché allargare l’impegno ad attività del tutto estranee al vangelo, forse bisognerebbe concentrarsi su questo. A sviluppare l’attività politica ci sono mille gruppi, circoli, associazioni; a diffondere la Parola di Dio molti meno.

Una delle impressioni è che, nella chiesa valdese e non solo, ci sia una tendenza a farsi portabandiera della laicità più integralista. Quasi un paradosso per una chiesa.
Paradossale specialmente se la laicità viene intesa come dovere di non esprimere mai una forma di giudizio basata sui principi evangelici su temi come la famiglia o l’omosessualità, mentre poi ci si sente in dovere di prendere posizioni ispirate dal vangelo su altri temi come l’immigrazione o la pace nel mondo. Su questi temi va bene ispirarsi ai principi biblici, su altri temi è considerato estremamente fuori luogo. In pratica si finisce per sposare in toto l’agenda del politically correct: il vangelo può essere usato solo quando supporta una delle posizioni contenute in questa “bibbia”. Io sarei per una posizione diametralmente opposta.

All’apertura del Sinodo l’Appello risultava stato firmato da 35 valdesi, quattro ex valdesi, una quarantina di evangelici. Segno dei tempi?
È stato un aspetto che ovviamente ci ha fatto molto piacere, perché dimostra che la chiesa valdese non viene considerata un possesso esclusivo dei membri della Tavola, ma un patrimonio di tutto il mondo evangelico. Devo però dire che sono stato incoraggiato anche da numerosi valdesi che non hanno ritenuto opportuno firmare.

Una ritrosia a esporsi che ha un’origine specifica?
L’ambiente è piccolo, e forse c’è anche il timore di qualche ritorsione. Viviamo in un’epoca dove nuovi chierici lanciano nuove fatwe, e più di qualcuno, comprensibilmente, preferisce non esporsi.

Su valdesi.eu, nel ringraziare contrari e astenuti, ha scritto tra l’altro: «Non ci resta che pregare. Avremmo dovuto farlo di più, e prima». È una conclusione amara, Malan.
No, è una conclusione cristiana: se siamo arrivati a questo punto, è a causa dei nostri peccati. Sia chiaro, non sono pessimista: sappiamo che a Dio tutto è possibile. Il piccolo gregge valdese, nel corso dei secoli, è stato salvato più volte da situazioni certamente più terribili, forse mai così difficili: oggi il pericolo è più insidioso perché viene dall’interno. Confido però che anche stavolta Dio avrà pietà di noi e farà in modo che questa chiesa torni a essere uno strumento forte al servizio del vangelo. La tentazione da parte di molti è parlare in terza persona plurale: “loro”. Dobbiamo tornare a parlare in prima persona: “noi”.

Che fare, dunque?
Prima di tutto, pregare: è la premessa indispensabile. E poi agire, essere presenti, lanciare iniziative per indurre i credenti a impegnarsi. Non abbiamo ancora un’agenda definita, ma una cosa è certa: non lasceremo il campo libero.

Paolo Jugovac

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