Meglio soli?

By 5 Dicembre 2004Editoriali

È un virus sempre più diffuso nei nostri ambienti. Nessuno ne è del tutto immune, né ci sono persone o gruppi che possano considerarsi completamente al sicuro. Il virus si insinua pian piano e si nutre di buone intenzioni; può avere un lungo periodo di incubazione nel corso del quale i sintomi ci sono, ma spesso vengono sottovalutati. Difficilmente la diagnosi viene accettata dal paziente, convinto com’è che nessuno abbia sufficienti titoli per visitarlo.
Spesso poi, quando il virus si manifesta, il portatore non se ne accorge nemmeno, convinto che siano invece la prova di una salute di ferro.

Il virus che aleggia nelle chiese italiane si chiama isolamento. Nasce quando il concetto biblico di autonomia viene declinato nella sua forma più estrema e antiscritturale, l’indipendenza: forti di un dettato neotestamentario allergico alle gerarchie (ma impregnato di comunione), l’isolamento dà vita a una sorta di autarchìa evangelica che enfatizza l’ambito strettamente comunitario trascurando gli altri livelli. Il fare da sé, la sufficienza dei propri mezzi, il bastare a se stessi passano così da strumento a obiettivo.
Il sintomo principale dell’isolamento? Avere qualcosa di proprio che non si sente l’esigenza di condividere.

La Bibbia ci insegna che siamo interdipendenti (chi non ricorda la metafora paolina del corpo umano?), e già questo dovrebbe darci il segno della posizione da tenere. Il fatto che Dio abbia creato cinque ministeri e non uno solo (per quanto in molte chiese ne esista solo uno, e in altre nemmeno quello), dovrebbe fugare ogni dubbio sull’importanza della comunione “orizzontale”, intesa come la condivisione spirituale tra credente e credente, tra chiesa e chiesa.
Eppure il concetto dell’autosufficienza è duro a morire.

Ai più, parlando di isolamento, saranno venuti in mente i grandi raggruppamenti di chiese: ma non si pensi che l’isolazionismo sia un problema esclusivo delle congregazioni, siano esse più o meno organizzate.
Certo: nel corso degli anni alcune realtà, unite da un’affinità di principi dottrinali, interpretazioni teologiche e pratiche ecclesiali, si sono strette attorno a questi capisaldi per darsi mutuo soccorso e agevolare la comunione. E la storia degli ultimi cinquant’anni ci insegna che è frequente, in contesti organizzati, una deriva isolazionista: alla tutela dei credenti (come le mamme italiane, anche le chiese non considerano mai i propri figli abbastanza maturi per poter pensare da soli, e tantomeno confrontarsi con la vita), si unisce un fisiologico spirito di conservazione.
In questo contesto, all’isolamento della singola chiesa si sostituisce quello del circuito; di fatto la cerchia delle mura viene spostata, ma il limite (la divisione) resta.

Il virus però colpisce allo stesso modo anche migliaia di piccole chiese locali: fiere della loro autonomia (o indipendenza?) e della mancanza di una struttura alle spalle,
vivono la loro quotidianità cristiana senza particolari relazioni con l’esterno, elevando così a piccolo universo la propria comunità, vista come unico paradigma possibile per la vita cristiana. Le attività comunitarie fioriscono, la vita di chiesa è appagante, la comunione con il fratello della sedia accanto è solida, la predica domenicale è interessante, la preghiera è fervente, gli studi biblici sono chiari, le piccole campagne evangelistiche nel quartiere sono soddisfacenti, la pratica ecclesiale stimolante grazie a elementi biblici desueti che vengono riscoperti e riproposti con entusiasmo.
Forti di convinzioni granitiche, convinti di aver ritrovato la semplicità delle comunità primitive “che non avevano strutture né gerarchie”, finiscono per tagliare i ponti “con il passato”, identificato non con la storia (che pure avrebbe molto da insegnare in merito), ma semplicemente con la realtà da cui provengono. E, soprattutto, tagliano i ponti con gli altri, “che non hanno capito”.

Come una Fort Alamo assediata dal mondo e non solo, il virus dell’isolamento porta a vivere con fatalismo e una punta di compiacimento la propria situazione, preferendo un’aurea solitudine a un’apertura a rischio, un’interazione limitata a una ampia condivisione, una placida certezza a un sapido confronto.
La comunione? «Siamo una comunità molto unita, e questo ci basta». E con gli altri? Alzano le spalle, in attesa che qualcosa di non meglio definito “apra le porte”.
«Per ora stiamo bene tra noi, non abbiamo bisogno di altro».

C’è chi passeggia nei boschi, e chi si accontenta di rimirare un bonsai. Quale sarà l’abitudine più salutare?

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