Un calcio alla fede

By 3 Luglio 2006Editoriali

Chissà perché a ogni Mondiale si finisce per parlare anche di fede. Fece storia quell’articolo a tutta pagina sulla Gazzetta dello Sport in occasione dei mondiali in Messico 1986, dove parlando di un valido giocatore coreano la rosea titolava a nove colonne: “Cha Bum, pastore evangelico…”.

Anche quest’anno i quotidiani si sono adeguati alla tendenza, riscoprendo il controverso rapporto tra fede e calcio. Curiosamente ancora una volta il discorso si è aperto parlando della Corea del Sud: per l’immaginario collettivo italiano Seul e dintorni dovrebbero essere dediti al buddismo, mentre – come molti evangelici sanno – proprio in Corea negli anni Ottanta c’è stato un movimento spirituale non da poco, che ha portato a centinaia di migliaia di conversioni: si tratta insomma di un paese che, in fatto di interesse per la spiritualità, è più avanti dell’azzimata Italia cattolica, il paese dei “non praticanti”.

La Stampa del 13 giugno titolava il pezzo sui coreani con un esplicito “Corea, nelle mani del cielo”. Vi si scopre che ben dodici giocatori della nazionale coreana sarebbero cristiani. Tutto è partito da quel Lee dal cui piede nel 2002 è partito il cross che ha permesso alla Corea di eliminare l’Italia: Lee è stato uno dei primi a convertirsi, e ha convinto un bel po’ di suoi compagni. «Nel 2002 eravamo in sei – spiega -, ora siamo raddoppiati». E la fede di Lee e di altri fuoriclasse sta convincendo molti giovani coreani, toccati dall’esperienza spirituale dei loro beniamini. Park Chu Young, ogni volta che segna (e pare succeda spesso), si ferma e prega. Conferma un giornalista, cristiano anche lui: «Noi cristiani amiamo comunicare agli altri la gioia che ci dà la fede». E aggiunge: «Una cosa è sicura: la fede cristiana dà ai nostri giocatori molta più serenità».

Si sono poi aggiunte le testimonianze delle superstar brasiliane (quest’anno, peraltro, meno propense a parlare di fede) e del Ghana (che, stando alle cronache, «pregano, sfatti di gioia alzano magliette con la scritta “Wonderful Jesus”, e sussurrano benedizioni tenendosi per mano»), ma la più significativa è stata proprio la testimonianza coreana.

Infatti, al di là delle dichiarazioni fuori contesto, di quei roboanti (e tristi) “Dio ci farà vincere” che talvolta si sentono (anche ai calciatori cristiani capita di farsi prendere dall’entusiasmo) forse è questa la chiave giusta per leggere questa notizia. Come lo stesso Paolo Mastrolilli segnala nel suo articolo, «i coreani al massimo puntano sulla propria fede per vincere una partita, e se va male pazienza. Anzi, la fede torna utile anche per accettare sconfitte e delusioni: altra lezione».

Lezione non da poco, in un calcio come quello di oggi. Lezione non da poco anche per la vita dei tanti fan e tifosi: se i nostri calciatori sapessero infondere serenità, sapessero davvero far comprendere (e non solo dichiarare in linea teorica) che “è solo un gioco”, se davvero nella loro vita emergesse che il calcio non è la cosa più importante e si comportassero di conseguenza, magari le cose andrebbero diversamente, non avremmo gli scontri tra ultras e le patetiche pantomime di chi vive per una fede calcistica fino a farne una malattia. Ma, per arrivare a tutto questo, i calciatori dovrebbero averlo dentro: avere la serenità di chi ha una meta superiore, rendersi conto di non essere dei, e anzi di dovere tutto a Qualcuno più in alto. Dovrebbero rendersi conto del fatto che la vita è qualcosa di più di una partita di calcio, e il novantesimo non segna la fine del mondo.

Per comunicare valori positivi dovrebbero averli dentro di sé. Ma il limite, per molti di loro, è proprio questo.

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