L’aria che tira

By 29 Marzo 2007Editoriali

Come sono impegnati gli evangelici: nessuno che, nell’ultimo periodo, abbia il tempo di guardare la televisione. Altrimenti, probabilmente, almeno qualcuno sarebbe rimasto turbato da una pubblicità che va in onda in ogni fascia oraria, nella quale uno scoiattolo salva un bosco dall’incendio attraverso un peto. Sì, proprio così.

Naturalmente il messaggio è – o almeno, lo si vuole ammannire così – ammantato di ironia; probabilmente gli ideatori ci diranno che la provocazione fa parlare e quindi paga, e soprattutto ci diranno che ormai anche il sommovimento intestinale è stato sdoganato in televisione dai tanti reality e dalla pubblicità. Ci diranno questo e non si sa cos’altro ancora per farci sentire antichi, dispensando un sorriso di commiserazione di fronte alle nostre rimostranze, che bolleranno come ipocrisia borghese.

Eppure, al di là delle ipocrisie, qualcosa turba. Non è tanto una questione di valori: siamo ben consapevoli che, in un periodo storico che vede un’inflazione di provocazioni, l’indignazione va moderata e modulata, riservandola alle cose serie. Forse è per questo senso di responsabilità che non ci è giunta nessuna segnalazione, per esempio, da parte dei nostri affezionati lettori, cui riconosciamo il merito di essere sempre attenti a cogliere il minimo dettaglio fuori posto.

Tuttavia, se questo spot è normale, è accettabile, non turba più di tanto, vuol dire che qualcosa è cambiato nel nostro modo di guardare il mondo e di accettare quel che ci circonda. Non è questione di valori: su quelli siamo ben saldi e, spesso, fin troppo intransigenti. No, ciò che manca è qualcosa di più banale, che però una volta veniva insegnato, richiesto e ribadito con forza nelle famiglie, nei rapporti sociali di ogni tipo, nel modo di comportarsi: l’educazione. Era la norma, fino alla generazione scorsa.

Se non ci turba più nulla ci sono due possibilità: siamo troppo impegnati nelle nostre crociate per sapere quel che avviene attorno a noi e indignarci. Oppure siamo assuefatti, fatalisticamente rassegnati al “purtroppo” d’ordinanza.

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