Silenzi scientisti

By 21 Novembre 2007Editoriali

Negli ultimi anni ci è stata presentata come la sfida del nuovo secolo: guarire attraverso la rigenerazione cellulare, ricreando per via scientifica nuovi organi e tessuti. La ricerca avrebbe finalmente risolto i problemi di milioni di malati, la ricerca avrebbe dato una nuova speranza a chi è in attesa di un trapianto, a quanti sono affetti dal Parkinson, e avrebbe sconfitto una sfilza di altre patologie degenerative.
Avrebbe risolto i problemi fisici, naturalmente, ma tant’è: la scienza non può per sua natura, né dovrebbe nel suo ambito, permettersi di promettere altro.

Un traguardo ambizioso, quindi, che richiedeva un sacrificio tutto sommato limitato: la ricerca, infatti, richiedeva la sperimentazione su cellule staminali embrionali. Praticamente, ciò che si crea dall’incontro tra spermatozoo e ovulo, ciò che una posizione tradizionalista – e per questo, va da sè, bollata come becera e ottusa – considera l’inizio della vita.

I media ci hanno fatto conoscere termini come “staminali”, “embrioni”, “clonazione”: espressioni inquietanti per chi non mastica la scienza, ma – a ben guardare – anche per qualche scienziato fuori dal coro, presto scomunicato dalla maggioranza. E a poco valeva la voce di chi tentava di obiettare che non fosse necessario sperimentare su staminali embrionali, che fossero più che adatte anche quelle adulte (e quindi semplici cellule del corpo umano, non vite potenziali).

Le autorità ci hanno chiesto di decidere con un referendum su un argomento che richiedeva, per poter esprimere un parere, conoscenze scientifiche, filosofiche e – volendo vederla da un punto di vista cristiano – anche teologiche: quando comincia la vita?

Confronti anche duri, degenerati spesso in luoghi comuni: da un lato chi veniva tacciato di difendere la vita futura ignorando il dolore del presente; dall’altro chi sosteneva le ragioni della scienza contro gli oscurantismi, ma che dall’altro fronte veniva accusato di rendere la vita un valore strumentale, anteponendo un totalitario “bene comune” al sacrosanto bene individuale.

Anche in campo cristiano il confronto era serrato: da un lato chi sosteneva che non possiamo determinare l’inizio della vita, e quindi sospenderla – anche nella sua forma embrionale – sia un errore; dall’altro chi sosteneva che una vita propriamente detta cominci con la percezione di sé e con la relazionalità.

Un dibattito quindi infuocato, fuori e dentro le chiese, e per questo oggi suona singolare il silenzio su una notizia che pare sfuggita alle prime pagine dei giornali. Ne scriveva Repubblica sabato scorso: «Lo scienziato britannico Ian Wilmut, il controverso papà della pecora Dolly – il primo animale clonato da una cellula adulta – ha deciso di cessare ogni ricerca sulla clonazione di embrioni umani per dedicarsi ad una nuova tecnica rivale, che consente di creare cellule staminali senza ricorrere ad embrioni». Pare infatti che Wilmut abbia rivaltato una tecnica messa a punto in Giappone, che potrebbe offrire «migliori possibilità di sviluppare cellule-madri, in grado di crescere e dare vita a diversi tipi di cellule, dallo stesso paziente per curare un’ampia gamma di malattie. La nuova tecnica, che verrà descritta in una pubblicazione scientifica in uscita martedì prossimo, non prevede il ricorso a embrioni umani».

Le conseguenze: «La scelta di Wilmut potrebbe segnare la fine della clonazione a scopi terapeutici, un campo di ricerca in cui negli ultimi anni sono state investite somme ingenti di denaro e che vede divisa, anche per le implicazioni etiche, la comunità scientifica. “Ho deciso qualche settimana fa di non andare avanti con il trasferimento nucleare (la tecnica utilizzata per clonare ‘Dolly’ nel 1997)”, ha affermato Wilmut, il quale sottolinea che “è molto più facile” che la nuova tecnica sia accettata dall’opinione pubblica. In futuro la tecnica potrebbe permettere di coltivare cellule staminali direttamente dal paziente, per usarle per riparare tessuti danneggiati per colpa di diverse malattie».

Tutto qui, di una allarmante banale: un semplice “signori, ho cambiato idea” e anni di discussioni, di dibattiti, di confronti svaniscono nel nulla, come se nulla fosse accaduto. Una rimozione che suona orwelliana.

Eppure, permetteteci: non ci basta. Che ne è dei sorrisi paternalistici di fronte a chi, bontà sua, sosteneva di non poter accettare il sacrificio di una vita, per quanto in divenire? Che ne è delle granitiche convinzioni sull’ineluttabilità di questa scelta, di fronte a chi sosteneva che magari si sarebbero potute valutare anche altre opzioni?

Se poi sarà effettivamente possibile usare le staminali adulte al posto di quelle embrionali, lo sapremo solo tra qualche anno, o forse mai: ma a questo punto la questione cambia ambito, e si sposta dal fatto al contesto.

L’impressione, già all’epoca, è che la scienza, o meglio lo scientismo, avesse voluto fare di questa tematica una battaglia teologica prima che scientifica, elevandosi dall’ambito tecnico per contrapporsi anche sul piano etico e filosofico a convinzioni filosofiche e religiose passate per retrive in quanto non scientifiche. Era in fondo il sogno di una scienza che da mezzo diventa fine, l’esperimento come dogma, la scientificità che si eleva a religione. Voler lottare con Dio da pari a pari: gli antichi greci l’avrebbero chiamata ubris, tracotanza.

Per questo, a prescindere dai risultati che verranno, la scelta di Wilmut è così significativa: lo scientismo ha provato a farsi fede, ma ha dimostrato la sua fallibilità. E una certa malafede.

In questo contesto, infatti, stride il silenzio di quanti hanno sostenuto strenuamente le posizioni scientifiche – le più ragionevoli, democratiche, civili: insomma, a sentire loro, il meglio del meglio -, e oggi non commentano la scelta del portabandiera che cambia parere.

No, non si fa: non si scomodano convinzioni etiche, non si ridicolizzano posizioni teologiche, non si banalizza la posizione altrui per poi cambiare idea di sottecchi. Non è democratico, non è civile, non è serio. Non è nemmeno scientifico.

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