
Quattordici articoli per stabilire i “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”: si presenta così il disegno di legge elaborato dal Governo sulla regolamentazione delle coppie di fatto.
Il disegno di legge, è opportuno ricordarlo, è una proposta che il Governo fa in relazione a una normativa, e prima di diventare operativa deve ora passare al vaglio del Parlamento. Non è, quindi, una normativa già attiva, o che per venir applicata aspetta solo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale: è una bozza su cui il Parlamento si esprimerà, sentendosi libero di accettare in toto, rifiutare, modificare alcune parti, eliminare articoli, aggiungerne altri, precisare certi aspetti che potrebbero venir considerati poco chiari.
Intanto, però, è possibile avere un’idea di ciò che il governo intendeva nel concreto quando, in campagna elettorale, parlava di “unioni civili”, in attesa di vedere quali saranno i compromessi necessari per far passare la legge in Parlamento. Compromessi con l’opposizione, naturalmente, ma anche con la stessa maggioranza, che nemmeno su questo tema si trova concorde. Lo stesso ministro Mastella, di estrazione democristiana, in sede di Consiglio dei Ministri si è astenuto dal voto sul disegno di legge, testimoniando in questo modo – nel linguaggio politico – la sua distanza dalla proposta.
Innanzitutto: il disegno di legge sui “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” si riassume, secondo il governo, nella sigla “Dico”. Che non è, evidentemente, un acronimo, né una fedele riduzione del nome. Forse è sembrato imbarazzante, in fase di definizione, parlare di “di. do. co. sta. co.” per un tema tanto rilevante, anche se altrettanto imbarazzo avrebbe dovuto cogliere chi ha ridotto il lavoro giovanile a un “co. co. co.”.
Forse è esagerato parlare di scelta politica fin nel nome, ma non si può non notare che la sigla “Dico” enfatizza i diritti dei conviventi, sorvolando sui doveri, che pure nel titolo della normativa sono presenti. Sarà un caso, ma è un caso che si allinea perfettamente alla società in cui viviamo, dove gli obblighi si dissolvono di fronte al “tutto intorno a me”.
Se poi si volesse azzardare un’analisi più approfondita, si potrebbe arguire invece che la sigla “Dico” segnala i termini più citati nel disegno di legge: “diritti”, appunto, e “conviventi”. Perché nel “Dico” di doveri ce ne sono ben pochi. Nei 14 articoli si parte con la definizione della convivenza e le categorie escluse dalla normativa: più o meno valgono le norme previste per il matrimonio, aggiungendovi il matrimonio stesso. Non potranno stipulare un “Dico”, quindi, parenti stretti (ma anche chi ha attentato alla vita del coniuge del proprio compagno) o persone ancora sposate.
Si passa poi ai diritti: diritto all’assistenza per malattia o ricovero (un cavallo di battaglia di chi sosteneva la legge), decisioni in materia di salute e in caso di morte, diritto al permesso di soggiorno per chi stipula un “Dico” con un cittadino italiano, il diritto all’assegnazione di case popolari e alla successione nel contratto d’affitto, il diritto al trasferimento di sede per i dipendenti per agevolare la convivenza, i diritti successori. Un solo articolo, il 12, parla di obblighi: l’obbligo a fornire gli “alimenti” all’ex convivente che versi in stato di indigenza, almeno fin che un nuovo “Dico” non li separi.
Per molti dei diritti, va segnalato, è previsto un periodo di convivenza di almeno tre anni (per la successione addirittura di nove): e potrebbe essere quantomeno un argine al proliferare di coppie di interesse, più che di coppie di fatto.
Sul piano sentimentale, la legge stabilisce che la convivenza può rientrare nei Dico se le due persone sono maggiorenni e capaci. Nel corso degli ultimi mesi i politici si sono prodigati a rassicurare: il patto di convivenza potrà riguardare tutti coloro che di fatto hanno la stessa dimora, e si citava l’esempio degli studenti universitari fuori sede. Che l’esempio e la rassicurazione fossero aleatori lo chiarisce il disegno di legge, che pare essersi dimenticato di queste “coppie di utilità”: per essere “Dico”, infatti, le due persone dovranno essere unite da “reciproci vincoli affettivi” non meglio specificati, anche se è evidente che difficilmente si tratterà di vincoli familiari, considerando che non possono accedere alla normativa persone legate da vincoli familiari.
Difficile anche che al “Dico” accedano coppie tradizionali: al di là dei casi che sicuramente i media riporteranno per confermare l’utilità della normativa anche per questa categoria, è evidente che se una coppia non riconosce l’autorità dello Stato nella sfera affettiva, come non ha sentito il bisogno di un matrimonio non sentirà l’esigenza di stipulare un “Dico”; e sarebbe una singolare contraddizione se una coppia “moderna”, che finora non ha sentito il bisogno del “contratto” matrimoniale, si affidasse a un “Dico”, che nella sostanza è un analogo pezzo di carta. Il “Dico” non sarà quindi un “matrimonio di prova”, né un vincolo in attesa di matrimonio (chi è sposato non può stipularlo).
Piuttosto, in questo contesto, potrebbe semmai configurarsi come un matrimonio “a tempo”, un legame lontano dalla tradizione occidentale, un patto semplice da stipulare (ma solo per l’assenza di controlli su chi abbia diritto e chi no, che invece nel matrimonio sono presenti) e semplice da sciogliere (basta un cambio di domicilio). Molto probabile, comunque, che a fare il successo del “Dico” sia quell’inciso dell’articolo 1: “Due persone… anche dello stesso sesso”.
Un’ultima curiosità: a una lettura del disegno di legge non risulta esclusa esplicitamente la possibilità di contrarre contemporaneamente più di un “Dico”. Potrebbe sembrare ovvio, nel momento in cui si parla di “due persone”, ma non si specifica un “non di più di due”. Potrebbe essere una svista, oppure una piega della futura legge per aprire alle famiglie poligamiche.
La parola, ora, al Parlamento, se vorrà.