
Filmati Internet che non superino la manciata di minuti; servizi giornalistici sempre più stringati; trailer a effetto al posto delle recensioni; programmi in pillole, dai contenuti sempre più concisi, per evitare di perdere l’ascoltatore o lo spettatore: è l’era della “snack culture”, la cultura preconfezionata e condensata che, come le merendine, si consuma di corsa, al volo, per non perdere tempo. È la società dell’immagine che non accetta il fermo-immagine.
Leggere richiede tempo. Guardare un film, ascoltare un brano, perfino giocare con i videogiochi ne richiede. Ed è tempo che portiamo via ad altro. Il problema è capire se c’è davvero qualcosa di “altro” ad aspettarci, oppure se la corsa è fine a se stessa. Fateci caso, se prendete la metropolitana a Milano: appena le porte si aprono, tutti si mettono a correre. Appena giunti in superficie rallentano o si fermano. Non è fretta: è assimilazione all’urgenza, ansia per il passo successivo, dipendenza dal “dopo”, anche se questo dopo dovesse dimostrarsi vuoto. Correre ormai è un vero e proprio modello di vita, che ha preso gradualmente il sopravvento: e oggi andiamo a velocità sostenuta per abitudine, dimenticando il motivo per cui corriamo.
La snack culture viene incontro a questa esigenza di rapidità: riassumere, condensare per far perdere sempre meno tempo. C’è sempre più bisogno di persone capaci di liofilizzare ciò con cui veniamo a contatto, si tratti di film, libri o siti, proponendoci il meglio e solo il meglio, perché per i tempi morti non abbiamo tempo.
Eppure non è la stessa cosa. Un distillato di conoscenze prodotto da altri non viene recepito allo stesso modo. La concentrazione, la ricerca, la valutazione delle priorità, l’impegno di sintesi non si trasmettono: si acquisiscono. E solo quando si acquisiscono, durano. Leggere, guardare, studiare non è tempo perso. Non è solo la fascinazione che esercita la pagina di cesura tra concetti diversi, il foglio di appunti che si riempie, il sunto del sunto che man mano tratteggia sempre meglio il quadro generale di ciò che stiamo analizzando.
No, non è solo la nostalgia di vecchi arnesi: è proprio una necessità. Un capitolo noioso, una fila alla posta, una spiegazione che dobbiamo ripetere, un testo che perdiamo e ci ritroviamo a ribattere da capo possono essere momenti esiziali. Spesso è proprio quella apparente perdita di tempo a fare da humus ai semi della conoscenza, è quello il terreno necessario per incubare i concetti, collegarli tra loro, far nascere un’idea.
Fermarsi non sempre significa bloccarsi. Anzi.