Eppure è nato. Non è successo il 25 dicembre, come sanno anche i bambini. Non è successo nell’anno zero, come ci hanno insegnato a scuola. Non è avvenuto in un contesto idilliaco come quello che i presepi della tradizione mediterranea rappresentano. Però è successo: duemila anni fa – anno più, anno meno – il Dio dell’impossibile e dell’incredibile, il Creatore dell’universo, il Consolatore di Giobbe, l’Amico di Mosè, l’Ispiratore dei Salmisti, la Forza di Davide, la Sapienza di Salomone, il Padre degli orfani scelse deliberatamente di farsi uomo. Uomo, come noi. Di nascere da una donna. Di crescere come un ragazzo qualsiasi. Di lavorare come chiunque altro, per vivere. Fino a quando, vero Uomo, si manifestò come vero Dio. E come tale venne implorato, osannato, adorato. Ma anche contestato, criticato, abbandonato. E, infine, umiliato, straziato, giustiziato.
Finché resuscitò e tornò in Cielo lasciandoci un Consolatore e una promessa: non vi lascerò soli. Anzi due: non vi lascerò soli e presto tornerò.
Nel giorno in cui venne al mondo non trovò nessuno ad aspettarlo. Certo, sarà stato un bambino grazioso come tutti i neonati, rimirato con affetto da Maria e Giuseppe, custodi di quel Mistero che potevano capire solo in parte.
Trent’anni dopo, il giorno in cui lasciò questa terra appeso a una croce, era ancora più solo e irriconoscibile, sfigurato dal dolore.
Qualche settimana dopo, quando ascese al Cielo, manifestò tutta la sua gloria a coloro che, fino alla fine, avevano conservato la loro fiducia in lui (e, a leggere i Vangeli, non dev’essere stato per niente facile).
In questi giorni, mentre attorno a noi sfavillano le luci della festa, è importante ricordare tutto questo. E ricordare che Gesù non fece tutto questo per smania di protagonismo: lo fece per noi. Per riaprire quel canale di comunicazione tra uomo e Dio che il peccato aveva interrotto e darci, così, un avvenire e una speranza.
È importante ricordarlo, ed è importante ricordarlo anche in questi giorni. Tanto più in questi giorni. Non per obbligo religioso o per conformismo, naturalmente, ma perché proprio adesso i nostri amici, i nostri vicini, i nostri colleghi in qualche modo lo ricordano. Il modo in cui lo ricordano dipende anche da noi: solo chi conosce la vicenda e ha conosciuto la Verità può sfrondare il loro ricordo generico da consuetudini, tradizioni, elementi superflui o estranei a un evento che, di per sé, resta importante ricordare.
Non si tratta di condannare chi non sa ma di avvicinarlo con amore, per portare la riflessione su un piano diverso, più alto, spirituale.
«Chi sta in piedi badi a non cadere», dice l’apostolo: non si tratta di puntare il dito contro usi e costumi altrui – anche se elevarci a censori del prossimo è una delle attività che ci riesce meglio – ma di dare a chi abbiamo di fronte una ragione di più – o meglio, una ragione vera – per ricordare, riflettere, ringraziare.
Trascurare questa opportunità significherebbe perdere un’occasione propizia per comunicare quella Venuta, l’evento che ha cambiato la Storia e può cambiare ogni vita. E, a sua volta, non ricordarla noi per primi può essere certamente frutto di una maturità spirituale invidiabile (o di un atteggiamento accanitamente anticonformista), ma rischia di diventare un’occasione in meno per esprimere gratitudine a Colui che ha fatto tutto questo per noi.
Sul resto – alberi, presepi, decorazioni e luminarie, doni, concerti natalizi – lasciamo discutere chi avverte la necessità di farlo. Per gli altri, per coloro che si interrogano ogni giorno sul modo migliore «per essere graditi a Dio», che il ricordo della Natività sia un momento di pace, gioia, amore concreto verso il prossimo e lode profonda a quel Dio che si fece uomo per portarci la Luce. E che, quando tornerà, probabilmente non ci chiederà se abbiamo trionfato nelle discussioni, ma come abbiamo sfruttato le opportunità di cui egli ha disseminato il nostro cammino.