È trascorsa una settimana, ma la visita di papa Francesco alla chiesa della Riconciliazione di Caserta non smette di far discutere. Dagli ambienti accademici alle discussioni social non c’è contesto evangelico che non si sia interrogato sulla questione. Nella migliore delle ipotesi il contributo si articola in ragionamenti pacati e documentati, che tentano di mettere in luce gli aspetti più significativi della vicenda analizzandoli alla luce delle categorie teologiche più appropriate; nei casi meno felici, si riduce a vere disfide combattute a suon di versetti e proclami millenaristi, spesso senza prendersi il tempo di ascoltare la controparte (né, probabilmente, di leggere i testi degli interventi proposti in quella storica giornata: d’altronde chi sa di aver ragione non ha bisogno di altro).
Naturalmente, nel leggere questi contributi, diamo per scontata la buona fede: siamo certi che le critiche sentite in questi giorni non abbiano il retrogusto sospetto del proverbiale “nondum matura est” e non nascano quindi solo perché è capitato ad altri e non a noi.
Fatta questa doverosa premessa, e fermi restando i sacrosanti principi espressi dagli interventi più avvertiti, risulta però singolare che tutte le discussioni lette finora, dalle più colte alle più social, si orientino sul piano dottrinale, ribadendo concetti chiari da mezzo secolo (o meglio, da mezzo millennio) che nessuno nell’ambiente evangelico mette in discussione, nemmeno chi sostiene il dialogo con il mondo cattolico. Con la curiosa conseguenza che si litiga per difendere posizioni su cui tutti concordano.
Non ci aggiungeremo al coro con l’ennesimo assolo destinato a lasciare immutato lo spartito. Del resto non siamo teologi: ci occupiamo di comunicazione, un elemento concreto che consideriamo la chiave per leggere realisticamente il mondo attorno a noi e raggiungerlo efficacemente con il messaggio di Cristo. Però proprio sul versante della comunicazione, ragionando sulla visita e sulle reazioni nel mondo evangelico, ci è stato impossibile non rimanere perplessi per alcune incongruenze.
Suona per esempio quanto meno strano che, a margine della visita, si sia paventato un progetto di conquista, una sorta di abbraccio mortale che mirerebbe ad attirare gli evangelici al cattolicesimo, quando casi simili sono una quantità infinitesima rispetto a quanti hanno sperimentato il percorso opposto (la quasi totalità degli evangelici di prima generazione, peraltro). Vista la nostra certezza tetragona sul piano dottrinale, la finezza delle nostre posizioni teologiche, la nostra freschezza spirituale e l’impatto sociale che abbiamo dimostrato di poter avere nel sud del mondo, dovrebbero semmai essere loro a temere noi: e invece, nonostante questo rischio, il papa visita una chiesa evangelica, partecipa a un culto, loda, canta, ascolta le testimonianze e parla di rispetto e di dialogo, dimostrando ai suoi fedeli che non devono essere diffidenti verso una realtà diversa ma incontestabilmente cristiana. Uno spot formidabile a favore della realtà evangelica, una riedizione aggiornata del celebre “non abbiate paura”. Viene da chiedersi, di fronte a tutto questo, di che cosa abbiamo paura noi.
Non solo. Risulta piuttosto sorprendente che nei numerosi commenti si sia spesso tralasciato un elemento non secondario come la decisione del papa di non definire più “sette” i movimenti evangelici. Era un’etichetta imbarazzante, che portava all’insorgere di equivoci e polemiche sui media e che aveva contagiato, per un periodo, perfino il Cesnur; ora l’infelice definizione potrebbe venire finalmente archiviata, con tutto il corredo di luoghi comuni che la accompagnavano (quante chiese, in Italia, non si sono sentite definire in questo modo dai parenti sospettosi di un neoconvertito, preoccupati per la scelta di fede del loro caro?). Bergoglio ha detto basta: ma, a quanto risulta, non si sono registrati cenni di gratitudine.
Suona singolare, del resto, che le nostre preghiere, da mezzo secolo, chiedano una chiesa maggioritaria diversa, che sottolinei l’importanza della conversione, di un’esperienza personale con Dio, di una lettura costante della Bibbia e poi, quando il massimo esponente di quella chiesa comincia a usare termini e concetti “evangelici”, lo critichiamo tacciandolo di incoerenza. Incoerenza che non riscontriamo nel constatare come centinaia di chiese evangeliche rimangono turbate di fronte al dialogo con il mondo cattolico ma nel contempo collaborano di buon grado – e ufficialmente – a un progetto come il Banco alimentare.
È sorprendente vedere che restiamo così interdetti da una visita, senza cogliere la portata mediatica di questo avvenimento, che per due giorni ha costretto giornali e tv a documentarsi sulla realtà evangelica e parlarne più di quanto abbiano fatto negli ultimi dieci anni, e quasi mai in termini negativi.
E, a proposito: ci lamentiamo della costante presenza dei cattolici sui media, quando sono gli unici a difendere tematiche etiche – la tutela della famiglia, il diritto alla vita – che altrimenti sarebbero monopolio di ben altre lobby e movimenti, con i riscontri sociali che possiamo immaginare.
La Bibbia ci insegna a «vagliare tutto e conservare ciò che è buono», eppure da una settimana si discute senza sosta sviscerando gli aspetti negativi della visita di papa Francesco a Caserta, tralasciando gli aspetti positivi di quella visita. Nel ragionare a schemi, evidentemente, ci sono sfuggite una serie di opportunità che quell’avvenimento apre davanti a noi.
Abbiamo la possibilità di sfruttare questa visita per ragionare di fede con i nostri amici cattolici riscontrando minore diffidenza da parte loro, o di incuriosire i nostri amici, che ora sono venuti a conoscenza di una realtà evangelica prima ignota, e per giunta ne hanno sentito parlare come di “fratelli”, non di “sette”.
Abbiamo l’opportunità di invitare i nostri amici a venirci a trovare, perché se l’ha fatto il papa – «superando d’un balzo tutti gli ostacoli protocollari», per dirla con Traettino – tanto più possono farlo loro senza timori, anche solo per curiosità.
Certo, obietterà qualcuno, noi non abbiamo bisogno di questi espedienti: siamo convincenti e preparati, sensibili e umili, concreti e pratici, testimoni della grazia di Dio attraverso la nostra vita prima ancora che con le nostre parole; per questo motivo le persone, di fronte alla nostra esperienza di fede, si avvicinano numerose affollando ogni domenica i nostri culti.
Però chissà: magari tra noi qualcuno si riconosce meno adeguato, meno perfetto, meno efficace di quanto vorrebbe, e avvalersi di uno spunto come questo potrebbe rivelarsi una benedizione. Magari, dopo tante polemiche, il dio sconosciuto degli ateniesi potrebbe aiutare anche noi.