Il 2015 è stato l’anno del radicalismo islamico, o dell’islamismo radicalizzato. Da Charlie Hebdo al Bataclan, passando per decine di stragi sparse in tutto il mondo, abbiamo dovuto tutti – cristiani, ebrei, musulmani, atei – imparare a convivere con la paura dell’estremismo religioso, un terrorismo che per la prima volta non nasce da recriminazioni storiche o da un disagio sociale, ma da un piano, lucido e delirante al tempo stesso, di imporre un credo e sradicare qualsiasi altra forma di pensiero. Sul modo di trattare con questa nuova forma di ideologia violenta, che si fonda su una religiosità strumentalizzata, si stanno interrogando intellettuali e analisti, alla ricerca di una risposta adeguata sul piano militare ma, soprattutto, culturale. A margine dell’estremismo religioso è tornato in primo piano un tema che a lungo era rimasto in penombra: il complicato rapporto tra Occidente e fedi, Stati e chiese, rispetto della maggioranza e tutela delle minoranze, difesa della tradizione e salvaguardia della diversità. In una parola: l’annoso tema della laicità.
Perché si fa presto a dire laicità. È moderno, chic, non impegna e fa tanto intellettuale. Ma esattamente di che cosa parliamo, quando parliamo di laicità?
Sul piano culturale ci riferiamo alla concezione greca, da cui deriva il pensiero occidentale moderno, secondo la quale le categorie del sacro e del profano sono due sfere distinte e separate, e tali devono restare. Una prospettiva ben diversa dal pensiero ebraico classico, dove si identificano in un unico concetto società civile e religiosa, vita secolare e spirituale: l’uomo viene visto nella sua globalità, con tutti i pro e i contro che questo comporta. Nel corso dei secoli, e soprattutto dopo l’epoca dei Lumi, la visione greca si è radicata nella società occidentale, e sarebbe anacronistico – o, per dirla tutta, impossibile – tornare indietro.
Il passaggio a una società postmoderna ha reso il quadro ancora più complesso. Una società che sviluppa le sue radici nella cultura giudaico-cristiana attinge a codici condivisi, in base ai quali sviluppa poi leggi, azioni, comportamenti sociali. Una società fluida e multiculturale come quella odierna, invece, non riconoscendo più al cristianesimo la sua primogenitura sociale tende a una gestione strettamente laica. E, per tutelare tutti senza privilegiare nessuno, chiede di fatto a tutte le espressioni religiose un passo indietro, in modo da garantire uno spazio pubblico neutro. A tutte, e – va da sé – in particolare al cristianesimo, che per secoli ha caratterizzato, ispirato, influenzato ogni espressione della società.
Non siamo così sicuri, tuttavia, che una laicità intesa in questo modo si possa seriamente accreditare come garanzia di uguaglianza tra le fedi.
La stessa Costituzione italiana, del resto, prescrive che «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto», non che tutte le fedi devono limitare la propria libertà a beneficio della convivenza civile. La differenza non è da poco. L’uscita delle religioni dal proscenio della società, della cultura, della politica rischia di ridurre i confini dell’espressione di fede a una pratica strettamente privata, perché naturalmente ogni uscita pubblica – dall’esposizione di un simbolo alla distribuzione di un volantino, dalla predicazione in piazza alla lettura di un passo biblico – rischia di urtare altri credo, altre fedi, altre coscienze.
Naturalmente l’idea di fondo della laicità ha un suo perché: secondo questo ragionamento – un ragionamento da mondo ideale, evidentemente – il passo indietro delle fedi dovrebbe dare alla società l’immagine di un tempio sociale neutro, dove entrare solo dopo essersi spogliati dalle proprie convinzioni, che devono venir lasciate all’ingresso e riprese all’uscita, quando si torna alla propria vita privata. Purtroppo non viviamo in un mondo ideale e questa prospettiva pone due ordini di difficoltà.
LA TEORIA. Il primo problema nasce da una domanda fin troppo banale: siamo sicuri che tutti accetteranno di fare questo passo indietro? Come sappiamo, le regole funzionano se sono condivise. Se anche un solo contraente non rispetta i patti, il meccanismo si inceppa. Succede sulla strada: basta che una persona, una sola, non rispetti un banale semaforo rosso per provocare incidenti anche gravi. Anche ammettendo che la teoria del passo indietro sia condivisibile, e concedendo che le chiese cristiane accettino a malincuore – ben sapendo che, in questo modo, non saranno più in grado di dare il loro contributo allo sviluppo della società -, la stessa regola dovrebbe valere anche per l’islam, che conta un certo numero di correnti non proprio moderate e non esattamente concilianti, la cui linea politica oggi è «l’occidente si è rammollito e corrotto, la sharia è la soluzione per loro e noi, per il bene di tutti, riusciremo a imporla».
Si sa che di fronte al pensiero debole ci sarà sempre qualcuno pronto a esibire un pensiero forte; nel silenzio di una sala ci sarà sempre qualcuno tentato di approfittarne per dire la sua; di fronte al passo indietro di qualcuno, ci sarà sempre qualcun altro che vedrà quell’insperato vantaggio come un segno che “è il momento”.
Non è ben chiaro, inoltre, come arrivare a questo passo indietro. Pare improbabile che avvenga con un accordo tra le fedi: troppe, e troppo autonome, le realtà in campo per giungere a un eventuale patto condiviso da tutti. E allora non resterebbe che una soluzione: l’imposizione per legge. Che peraltro in alcuni Paesi è già realtà.
Un’imposizione è, di suo, qualcosa di pericoloso. È sempre rischioso limitare per legge una libertà, specie quando è fondamentale e delicata come la libertà di espressione religiosa. Che lo si voglia o no, infatti, la fede è quanto di più profondo, intimo e motivante esista nell’animo umano; proprio perché tocca corde che risuonano oltre la vita, è in grado di sviluppare una convinzione così forte da far accettare il martirio, o da muovere forze che nemmeno si pensava di avere. Per questo porre limiti all’espressione della fede è pericoloso quanto limitare l’accesso al cibo da parte di un affamato, ma è anche inutile: la storia ci insegna che la fede ha sempre vinto su regimi, persecuzioni, ideologie.
Il legislatore occidentale del Duemila, liberale o meno, conosce la delicatezza della situazione (o almeno dovrebbe conoscerla), e per questo impone per legge meno vincoli possibile, venendo a patti con le fedi (con i concordati e le intese) o comunque garantendo ai credenti la libertà di vivere il proprio credo.
LA PRATICA. E questo ci porta a una seconda questione: limitare le espressioni di fede non è solo un problema teorico, ma anche pratico. Vietare le pratiche religiose pubbliche ci metterebbe sul piano di regimi asiatici che nessuno invidia. Vietare l’espressione nello spazio pubblico è ancora più complicato e porta a risvolti paradossali.
Prendiamo l’esempio della Francia, uno dei Paesi dove la laicità viene perseguita con particolare attenzione: da anni nella République è vietato per legge esibire “simboli religiosi”, ivi comprese la kippà ebraica, la croce cristiana, il velo islamico. La decisione non ha risolto il problema, ma semmai ha portato a ulteriori questioni e a veri e propri casi di cortocircuito. In ossequio alla laicità sono stati vietati, poco tempo fa, i manifesti che promuovevano un concerto religioso; la decisione è rientrata quando si è compresa l’assurdità della decisione, ma a buon diritto monsignor di Falco ha esclamato: «In nome della libertà di espressione si ha diritto di insultarci e noi in nome della laicità non abbiamo il diritto di esprimere le nostre convinzioni?».
Già, perché sarebbe limitativo guardare il problema della convivenza civile solo nella prospettiva delle fedi. In una società sempre più integrata, informata e “social”, ci sono altri elementi a creare disagio. Per esempio la satira. Il caso di Charlie Hebdo è stato solo il più eclatante, e ha riportato sotto i riflettori un’altra questione fondamentale: in nome della libertà di satira è lecito offendere le religioni? E se è così, questa libertà non farà saltare i (faticosi) progressi sulla strada del quieto vivere? E ancora: la libertà di satira ha la precedenza sulla libertà di informazione, ma soprattutto sulla libertà di espressione religiosa?
Ed evitiamo, per carità di patria, di toccare questioni per niente banali come il senso di responsabilità (curiosamente imposto ai giornalisti e ai credenti, ma non ai comici), il senso della misura, il buonsenso (imposto, a dire il vero, a tutti gli adulti, ma evidentemente disapplicabile in funzione di una libertà considerata superiore).
In Italia la laicità non ha imposto, finora, passi indietro. Salvo episodi sporadici, debitamente riportati dalle cronache come curiosità o come segno dei tempi, i credenti sono ancora liberi di esprimere la loro posizione, nelle questioni sociali come nella formazione delle leggi. Possono farlo entrando nell’agone politico, costituendo partiti ad hoc o lavorando in formazioni “laiche” ma sensibili al richiamo dei valori cristiani; possono farlo sui giornali, quando trovano spazio (anche se sostenere una prospettiva cristiana è pratica sempre più controcorrente, e si sa, chi va controcorrente dà fastidio); possono farlo sui social network, anche se sembra che non siano in grado di gestire la comunicazione avanzata con la dovuta competenza, e spesso finiscono per venire messi all’angolo con qualche slogan cui non sanno rispondere.
I cristiani, quindi, possono ancora esprimersi liberamente; eppure sempre più spesso c’è chi, in risposta alle loro obiezioni, reclama “leggi laiche”. E talvolta la richiesta arriva anche da soggetti culturali cristiani. Il leit motiv è sempre lo stesso: «il nostro è uno Stato laico; prima di parlare è necessario spogliarsi dalle proprie convinzioni religiose».
IL PASSO INDIETRO. Ed è proprio qui il nocciolo della questione: è necessario, è utile, è opportuno reclamare questo passo indietro?
In questo senso è la stessa Costituzione a spezzare una lancia a favore dei credenti, quando garantisce la possibilità per tutti di concorrere alla vita politica. Il contributo di tutti noi, e di ognuno di noi, è prezioso (certo, un minimo di competenza non guasta; ma questa è un’altra storia), e il contributo che io posso dare nasce proprio dalla mia esperienza di vita, dal mio retroterra culturale, dalle risposte che ho trovato. Se non su questo, su che cos’altro si può basare il mio contributo?
Ogni cristiano è convinto che i principi di fede, di vita, di azione che contraddistinguono il suo credo possano essere di ispirazione per la definizione di una società migliore. Sono principi che peraltro godono da sempre di una ampia considerazione sul fronte politico: crediamo nel valore della vita; crediamo in una prospettiva solidale, a fronte della tendenza umana a un approccio egoista ed egoriferito; crediamo nella libertà e nel rispetto. Su queste basi, e sulla scorta della nostra esperienza, ci permettiamo di avanzare proposte per una società migliore, a misura d’uomo, capaci di puntare a uno sviluppo solido, condiviso e non effimero. Si tratta di proposte naturalmente perfettibili (ogni legge umana, del resto, lo è) e in grado di relazionarsi con il loro tempo. Proposte che non imponiamo a nessuno: viviamo in democrazia, ed è la maggioranza a decidere. Ma desideriamo che la nostra voce si possa sentire, perché riteniamo di avere qualcosa da dire, nonostante il nichilismo imperante tenti di impallinare ogni idea capace di volare alto.
Certo, crediamo anche che l’azione non sia tutto, che il cambiamento debba essere principalmente personale e interiore, profondo e radicale, per influenzare poi virtuosamente la società: ma questo naturalmente non sarà mai oggetto di proposte politiche, quanto di una sensibilizzazione costante dell’individuo verso una ricerca di quella Realtà superiore che, nella nostra esperienza personale di cristiani, abbiamo identificato come Dio, e che trova la sua espressione più completa nell’opera e nel messaggio di Gesù Cristo. Non ci sogneremmo mai di imporre per legge un pensiero unico, neppure se lo considerassimo il migliore in assoluto: un’assurdità simile non è la vocazione di una fede, semmai è l’obiettivo delle ideologie. Ed è stato ampiamente dimostrato nell’ultimo secolo.
Ma allora, se le ideologie possono essere pericolose almeno quanto le fedi, viene da chiedersi: perché pretendere la “laicità” solo da chi professa una fede e non da chi propaganda un’ideologia? L’ateo è più “laico” solo perché nel suo dna non c’è traccia di un’Entità superiore chiamata Dio? O forse le ideologie, di qualunque colore, nel corso della storia sono state meno dannose delle religioni? Quanti morti ha sulla coscienza il “sol dell’avvenire” che per creare una nuova società voleva imporre per legge l’uomo nuovo?
La laicità, allora, deve valere per tutti: per chiunque abbia una proposta, un ideale, un sogno. Di fronte a questo evidente paradosso ci si renderà conto di quanto sia inefficace l’invocazione di leggi “laiche”. A meno che le leggi laiche non siano figlie di una ideologia specifica, il laicismo. Ma, in tal caso, qualcuno dovrebbe spiegare perché una proposta laicista, scettica e asettica, apparentemente senza storia e senza bandiere, dovrebbe risultare migliore rispetto a proposte che prendono le mosse da valori ed esperienze con secoli di storia alle spalle. Dovrebbero prima spiegarci – in base a quegli stessi parametri relativisti che imbracciano per abbattere gli altri – perché escludere la fede dalla vita pubblica dovrebbe risultare un’idea così valida da essere sostenuta senza “se” e senza “ma”, come moderna, progredita, risolutiva, culturalmente rilevante.
Altrimenti la laicità diventa solo una facciata. Anzi, un sepolcro imbiancato. Diventa solo un modo – ingegnoso, per carità: chapeau! – per far valere gli interessi di una categoria specifica, o di far pagare le velleità egoistiche di alcuni alla società intera, facendo pesare il senso di colpa che, storicamente, le fedi portano sulle spalle (ma le ideologie, inspiegabilmente, no). La laicità rischia quindi di diventare la bandiera di categorie che hanno buon gioco, lavorando sulla disinformazione e sul pensiero prevalente, nel far passare i propri interessi particolari come “battaglie di libertà”. Battaglie che un giorno rischiamo di pagare tutti, e a caro prezzo.
Le avvisaglie ci sono già, purtroppo, ma le parole altisonanti che gli alfieri della laicità spandono nell’aria – libertà, uguaglianza, progresso, diritti -, insieme alla condiscendenza di una maggioranza silenziosa che non obietta per non subire lo stigma della riprovazione sociale, fungono da armi di distrazione di massa.
Non è la prima volta che un’ideologia tenta di scardinare la società stravolgendone i valori. Anche questa volta dovrebbe suonare come una valida ragione per continuare a proclamare la speranza. Con rispetto, misericordia e competenza, ma senza timori reverenziali.