È l’ora della certificazione vaccinale: da venerdì 6 agosto nei locali pubblici non si consuma più al tavolo senza l’ormai noto – o famigerato – green pass, che sarà essenziale anche per accedere a musei, spettacoli, stadi, fiere, congressi, palestre, piscine. A margine prosegue intenso il dibattito sul complicato rapporto tra salute pubblica e libertà, un confronto trasversale che coinvolge in maniera sempre più intensa anche i credenti. E che per questo fa, a sua volta, riflettere.
Va ammesso che i contestati tamponi imposti dal 2020 a oggi sono serviti a qualcosa. Non tanto a rivelare la nostra positività, quanto piuttosto la nostra fragilità. Umana e spirituale. Più di qualcuno ha già notato, non senza lasciar trasparire un certo imbarazzo, il contagio di quella paura che, come credenti, fino a ieri disprezzavamo negli altri. Annunciavamo un Dio dei miracoli, vivevamo la beata – e, a volte, superficiale – sicurezza di chi conosce il proprio destino. Forse però non eravamo così convinti delle nostre certezze, se oggi nelle chiese – anche quando le condizioni di sicurezza sono più che garantite – la vita comunitaria si è ridotta a faccenda per pochi intimi. Forse, anzi, paradossalmente il culto è l’unica attività pubblica per la quale non rivendichiamo la libertà di spostamento.
Allo stesso modo, e forse in una forma ancora più virulenta, va detto che fin qui anche il vaccino è stato utile: ma non tanto a creare anticorpi quanto a evidenziare i nostri limiti. Non ci si divide più sul modo migliore di raggiungere le persone con il vangelo, su questioni teologiche che prima consideravamo fondamentali, sul rapporto tra scienza e fede, sul modo in cui innovazione e conservazione possono trovare un equilibrio per favorire una vita cristiana coerente.
Come Pietro eravamo convinti che nulla avrebbe smosso il nostro modo di vedere le cose, il nostro approccio, le nostre convinzioni. Tutto era definitivo, granitico, certo. E invece, come Pietro, non ci abbiamo messo molto a dimostrare il contrario.
Da mesi ormai ci si confronta, e purtroppo ci si divide in maniera anche aspra e definitiva, sull’utilizzo di uno strumento farmacologico. E non tanto ragionando sul significato biblico di una scelta di fede in una cornice scientifica, ma affrontandosi su questioni che riguardano altre sfere. Fino a ieri il pensiero principale – oggetto di tante melense cartoline digitali – era il maranatha, oggi invece tutti si sono riscoperti tutori e amanti della libertà: una libertà intesa però non in senso spirituale quanto giuridico, politico, filosofico. Sembra quasi che l’azione cristiana sia stata barattata con la rivendicazione di uno tra i due diritti confliggenti – alla salute da un lato, al movimento dall’altro – e che solo questo confronto, trascurato fino all’altro ieri dalla maggioranza dei credenti, valga il nostro tempo. Se per due secoli ricordare che “il mondo sta morendo” dava la motivazione all’impegno cristiano, oggi sembriamo rassegnati: pare che l’importante non sia più offrire una speranza, ma garantire che il mondo muoia nelle condizioni che a noi sembrano più adeguate, libero o sano.
Forse dovremmo fare tutti un passo indietro e ritrovare, sobriamente, la prospettiva. Che non sta, almeno qui, nel confronto tra stato etico o liberale, su cui ognuno ha – e ha sempre avuto – una propria opinione, legittima finché inserita in un giro d’orizzonte più ampio (che, va detto, purtroppo i novelli pasdaran delle rispettive posizioni non si sono mai peritati di approfondire con gli opportuni studi).
Non siamo certo noi, qui, a dover ricordare che la priorità del cristiano non si ferma al prossimo mezzo secolo ma si proietta, per sua natura, sulla vita eterna e che l’umanità non verrà sterminata né da un virus né dà un vaccino, per quanto feroce possa dimostrarsi il primo e precario possa rivelarsi il secondo. E non siamo noi, qui, a dover ricordare nemmeno che la nostra teologia non può fermarsi all’accesso – garantito o obbligato che sia – a un vaccino o a un locale pubblico, ma deve abbracciare il senso spirituale dell’esistenza, e che la libertà prioritaria che ci deve stare a cuore non è mirata allo svago – senza nulla togliere, beninteso, alla gioia di incontrare gli amici e di viaggiare ovunque – ma, semmai, a preservare il diritto di incontrarsi per celebrare Dio e annunciare la sua Parola.
È vero, come esseri umani sentiamo la necessità di trovare costantemente una causa per cui batterci; tuttavia, prima di scendere nell’arena a suon di dati statistici e slogan, dovremmo fermarci, fare un respiro profondo e scegliere. Scegliere non una fazione, ma quella che un personaggio al di sopra di ogni sospetto – volando più alto di ogni contagio umano passato e presente, di ogni ideologia, di ogni ossessione – definì la parte migliore.
Paolo Jugovac