Il Giornale racconta “i versi inediti del moralista corsaro”, il cantautore Fabrizio De André, capace di spaziare tra “la tv, il ’68 e Cristo”.
In merito alla fede l’articolo rivela «un De Andrè incline alla spiritualità come spesso accade agli agnostici, e infatti “mi piacerebbe tanto che Dio ci fosse, del resto un giorno Nietzsche disse che Dio è morto, e io rispondo: però c’è rimasto Cristo”. Cristo “il filosofo anarchico, il poeta dell’amore” raccontato con grato affetto in “Si chiamava Gesù”, ignorata dalla Rai e trasmessa da Radio Vaticana».
Un brano che, a rileggerlo, non può non far riflettere, nel bene e nel male, sull’onestà del cantautore: che, se ammette “Non intendo cantare la gloria/ né invocare la grazia e il perdono/ di chi penso non fu altri che un uomo”, riconosce comunque che “inumano è pur sempre l’amore/ di chi rantola senza rancore/ perdonando con l’ultima voce/ chi lo uccide fra le braccia di una croce”.
Chissà se, nel corso della sua vita, De André ha compreso quell’amore e il senso di quella venuta di cui cantava “non si può dire non sia servito a molto/ perché il male dalla terra non fu tolto”.