Che pasticcio, Lidia Poët. La serie di Netflix dedicata alla prima donna avvocato del Regno d’Italia ha suscitato ampie perplessità, quando non proprio critiche, da parte di chi la vicenda di Poët la conosce. La serie racconta in maniera molto libera – e libertina – la vita della donna, ma da un lato dimentica dettagli fondamentali, dall’altro eccede in un’attualizzazione del personaggio, a partire dal linguaggio usato, che rende l’idea di un progetto pensato con altri scopi.
Il primo dettaglio che viene fatto notare è l’assenza, nella serie, di ogni riferimento alla fede valdese di Lidia Poët. E non si tratta di un dettaglio né di un banale puntiglio, perché proprio quell’appartenenza confessionale ha formato la sua persona. Lo sottolinea Clara Bounous, storica e biografa di Poët, intervistata da Nev: «È importante perché dobbiamo sempre partire da quando lei è nata, cioè metà Ottocento, prima dell’Unità d’Italia. Nella sua valle la popolazione era praticamente tutta valdese e i valdesi avevano molto a cuore la cultura, perché attraverso la cultura tutti potevano leggere la Bibbia. Nelle nostre tre vallate valdesi c’erano addirittura duecento scuole elementari. Poi lei era di una famiglia benestante, quindi aveva la possibilità anche di leggere altre cose. Questa cultura che sgorgava dalla sua chiesa l’ha sempre accompagnata. E non è rimasta con le mani in mano, ma si è dedicata al sociale con un impegno che l’ha portata anche ad essere membro italiano in vari congressi internazionali, soprattutto per quanto riguarda le carceri, i minori, gli svantaggiati. E questo le arrivava proprio dall’aver letto la Bibbia e aver capito che l’amore e la carità sono dei capisaldi nella vita di una persona».
Lidia Poët era figlia della sua fede e del suo tempo, motivo per cui hanno suscitato perplessità anche altre scelte autoriali. «Colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu», nota Peter Ciaccio su Riforma. Non solo: la Poët raccontata dalla serie è algida, non coinvolge lo spettatore. «La sensazione – riflette Ciaccio – è che al personaggio Lidia sia stata strappata l’anima. È soltanto una donna di fine Ottocento che rivendica il diritto di esercitare l’avvocatura. Non è poco, certo, ma non è neppure abbastanza per renderla credibile agli occhi del pubblico e suscitare empatia».
Viene quindi da chiedersi il motivo di questa lettura asettica, che sembra astrarre Poët dal suo tempo per renderla qualcosa di diverso. «Una risposta possibile – spiega l’autore – è che la serie parli in realtà dei nostri giorni. Lidia e le questioni intorno a lei potrebbero non essere altro che “idee” (in senso platonico) del nostro mondo, anzi della nostra Italia. Così si spiegherebbero il linguaggio informale vicino all’italiano contemporaneo, l’indifferentismo religioso, il libertinismo sessuale, una gioventù mai stimata dalle generazioni più mature, l’uso regolare di stupefacenti per sopravvivere a un mondo alienante, drogato di ansia da prestazione. Soprattutto, così si spiegherebbe l’elemento più paradossale della serie. Lidia non appare, infatti, particolarmente intelligente».
Anche fuori dal contesto valdese la serie non sembra aver entusiasmato, come testimonia Aldo Grasso che sul Corriere parla dell’attualizzazione forzata come di un “azzardo”, aggiungendo che scenari, costumi, fotografia e messaggio indotto non sono sufficienti, perché «è assente quel processo attraverso cui un’idea prende corpo nella struttura narrativa, nei dialoghi, nel respiro delle inquadrature, nella temperatura della recitazione… Gli autori volevano rileggere in chiave light procedural la storia vera di Lidia Poët, la prima avvocata d’Italia. Cioè hanno rifatto “La signora in giallo”» con un (dis)valore aggiunto di scene forti e turpiloquio. Insomma, povera Lidia Poët. Se volete farvi un’idea del progetto, l’anteprima ufficiale è qui.
foto: nev.it