«Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo. Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano». Non capita spesso di leggere sulla prima pagina di un giornale nazionale una dichiarazione del genere, ma il torrido agosto 2024 ci ha riservato anche questa sorpresa. La frase è dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, e a sorpresa viene citata da un teologo cattolico, Vito Mancuso, in termini critici. Mancuso, dalle colonne della Stampa, si dice infatti “preoccupato” per le parole dell’arcivescovo, riproponendo in termini più accesi un dubbio che accompagna il cristianesimo da secoli: «davvero non esiste altro nome se non quello di Gesù per la salvezza degli esseri umani?» La domanda di Mancuso rimanda a «tutti coloro che non si appellano al nome di Gesù, e che sono la maggioranza dell’umanità nel passato nel presente e nel futuro», ma anche a «chi lo prega rivolgendosi a lui nel nome di altri» o a «chi non lo prega ma pratica la vita spirituale» delle discipline orientali. Non pago, il teologo aggiunge al novero «chi lo nega ma serve il bene con un’irreprensibile condotta morale».
Il problema da cui origina il dibattito è “la situazione molto preoccupante del cristianesimo odierno”, con una chiesa cattolica che, rilevava Repole, si ritrova “minoritaria e in forte invecchiamento”, e per questo ha bisogno di trovare un altro modo di essere chiesa, “che però non abbiamo ancora in mente e soprattutto non abbiamo nella carne”.
Le formule tradizionali non reggono il passo, e nonostante questo “sta emergendo una forte ricerca di spiritualità”: «per la Chiesa è semplicemente sconvolgente», chiosa Mancuso, «perché significa che essa non sa più intercettare il motivo principale che spinge da sempre gli esseri umani a credere in Dio e ad avere una religione». La “domanda di senso” è crescente, eppure il cristianesimo si fa sempre meno rilevante.
In questo quadro, azzarda Mancuso, suona anacronistica l’impostazione tradizionale, l’idea cioè che in nessun altro c’è salvezza, e attribuisce a questo “esclusivismo teologico” le ragioni di «divisioni, persecuzioni, e non di rado violenze e guerre di religione». Mancuso prende a supporto della propria tesi «il pensiero di Gesù, il quale legò sempre la salvezza alla pratica del bene e della giustizia, non a riti o a invocazioni particolari» (la citazione, scontata, è il Sermone sul monte: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto»). Si tratta di un archetipo che incrocia anche il pensiero di altre dottrine, motivo per cui secondo Mancuso «il cristianesimo, come tutte le altre religioni, si dovrebbe porre umilmente al servizio abbandonando ogni pretesa di primato e di esclusività».
A rispondere (per le rime) a Mancuso è, a stretto giro, il teologo Maurizio Gronchi, che sulle stesse colonne confessa “una certa sorpresa” per le libere interpretazioni di Mancuso, non scevre da forzature, sull’esclusivismo del cristianesimo: «Di fronte a una lettura così frettolosa e imprecisa, non resta che invitare, almeno i lettori, a valutare con maggiore attenzione le fonti neotestamentarie, lo sviluppo dell’Extra ecclesiam nulla salus, e il magistero conciliare e post-conciliare sul tema della unicità e universalità della salvezza in Cristo», taglia corto.
foto da youtube.com (Roberto Repole)