
Trentatré anni in coma. Luigina Brustolin non si era mai ripresa dall’incidente in cui era rimasta coinvolta insieme alla figlia di appena due anni. Era il 23 maggio 1992, il giorno prima dell’attentato a Giovanni Falcone: la piccola sopravvisse 35 giorni, Luigina invece è scomparsa nel 2025, dopo oltre tre decenni. Sessant’anni vissuti a metà, assistita dai familiari che per tutto questo tempo hanno continuato a starle vicino mentre lei passava dal coma profondo al coma vigile, tra miglioramenti e peggioramenti.
Qualcuno ha trovato modo di polemizzare anche sul lutto, rilanciando il tema dell’eutanasia, ma i familiari confermano la scelta portata avanti per più di trent’anni: «alla fine, si accetta anche una condizione così estrema. Nel senso che se ti capita una cosa del genere che fai? Che puoi fare? […] C’è chi dice che è stato criminale tenerla lì per 33 anni a soffrire inutilmente, altri dicono che sarebbe stato meglio se fosse morta… Si rende conto? Lo dicono a noi… Io posso solo dire che certe cose dovrebbero provarle sulla propria pelle, prima di sparare giudizi. Se la vita ti mette davanti a una prova del genere non puoi fare altro che gestirla, con le tue forze e con quello che ti offre questo Paese. A chi dice che sarebbe stato meglio se lei fosse morta subito rispondo: sì, e quindi? Cosa fai? Chi vuole rispondere a questa domanda?».
È l’effetto social, e si sa che «i social sono a conoscenza di misteri su cui scienziati e filosofi si arrovellano da millenni», commenta Massimo Gramellini. «Che cosa prova chi sta in coma o è colpito da demenza senile? E che cosa prova chi lo assiste, dilaniato tra il desiderio di porre fine allo strazio e il disagio nell’ergersi a dio di qualcun altro? I social ne sanno più di qualsiasi dio», ironizza. Anzi, rincara, «i social sono il nuovo Dio “che affanna e che consola”. Poi mettono i cuoricini alla canzone sanremese di Cristicchi sulla madre malata di Alzheimer».
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