Una drammatica storia di abusi su minori ha investito i vertici della Chiesa anglicana: martedì scorso il capo spirituale della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, si è dimesso dalla carica. La decisione è seguita alle accuse, sempre più stringenti, di aver coperto le turpi azioni di John Smyth, avvocato e volontario anglicano, mancato nel 2018, che in quarant’anni avrebbe commesso abusi fisici e psicologici su almeno centotrenta minori nell’ambito di campi estivi gestiti dalla Chiesa.
Secondo le accuse, Welby era in rapporti cordiali con Smyth (che il Manifesto definisce “cristiano evangelico”); il Corriere rileva che già nel 2013, appena insediato a Canterbury, Welby avrebbe ricevuto un fascicolo sugli abusi perpetrati dall’uomo, senza tuttavia prendere provvedimenti né informare le forze dell’ordine sul caso. La situazione, dopo richieste pubbliche, petizioni popolari e pressioni perfino da parte di re Carlo (che, come noto, è formalmente il capo della Chiesa anglicana), si era fatta insostenibile, tanto da costringere il primate alle dimissioni.
Lo scandalo, in realtà, visto dal continente assume toni diversi da quelli vissuti oltremanica: del resto, rileva Luigi Ippolito sul Corriere, «il ruolo della Chiesa anglicana e del suo capo, l’arcivescovo di Canterbury, nella società inglese è molto diverso da quello della Chiesa cattolica e del papa in Italia: l’Inghilterra è ormai una nazione postcristiana, dove i seguaci della fede in Cristo sono diventati una minoranza… accanto agli anglicani sono presenti numerose altre confessioni cristiane, dai cattolici ai pentecostali agli ortodossi, tutte in espansione, per cui a riconoscersi nella Chiesa d’Inghilterra è ormai meno del 20 per cento della popolazione, con meno del 2 per cento che sono praticanti abituali». Per questo, chiosa Ippolito, l’arcivescovo di Canterbury non influenza l’opinione pubblica e “la sua figura non ispira un particolare timore reverenziale”.
foto: corriere.it