
Manca meno di una settimana al giuramento di Donald Trump. Fervono i preparativi per la cerimonia e le aspettative – o le preoccupazioni, a seconda dei punti di vista – per il suo secondo mandato, che a giudicare dalle prime dichiarazioni si preannuncia particolarmente scoppiettante. Nei giorni scorsi Trump ha annunciato il desiderio, o l’intenzione, di inglobare i cugini nordici del Canada e i territori della Groenlandia, attualmente danese, riprendere il controllo del canale di Panama e far liberare gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas.
In seguito, mentre il Senato USA convalidava i risultati delle elezioni – a proclamare il verdetto, ironia della storia, è stata la sua avversaria, Kamala Harris – Trump ha incontrato la nostra presidente del Consiglio ed è difficile non notare la coincidenza temporale tra questo dialogo e la successiva decisione delle autorità iraniane di liberare la giornalista italiana Cecilia Sala, fermata dopo che l’Italia aveva arrestato un cittadino iraniano su mandato statunitense (chissà, magari la vicenda diventerà la trama di una spy story). Tutto questo nel silenzio di Biden, ormai oscurato dal rutilante ritorno di The Donald.
Al momento non si sa ancora molto sulla cerimonia di insediamento – l’inauguration day – in programma per lunedì 20 né sul discorso con cui, verosimilmente, Trump spiegherà la sua visione e traccerà le vere linee guida del suo mandato sul versante internazionale; sul fronte interno, invece, è difficile che vengano smentite le promesse formulate alle tante realtà evangeliche che hanno creduto in lui e lo hanno sostenuto nella rielezione. Una vicinanza che il New York Times sintetizza vaticinando “una nuova era per il potere cristiano” (dove la formula, christian power, riecheggia altre formule simili usate in passato, dal flower power hippy degli anni Settanta al girl power, la riscossa femminile degli anni Novanta).
Trump, secondo Elizabeth Dias, sarà l’alfiere della cristianità nella società e nella politica americana, a fronte di una secolarizzazione che avanza e di un pluralismo sempre più incombente. In campagna elettorale ha rassicurato la componente cristiana sul fatto che avrebbe dato peso «non solo alla sua influenza ideologica», ma anche che avrebbe «sancito che Dio creò solo due generi, maschio e femmina», e che avrebbe allestito una «task force federale per combattere i pregiudizi anticristiani». Inoltre i leader cristiani avranno, almeno stando alle promesse elettorali, un accesso privilegiato e diretto allo Studio ovale: «dobbiamo salvare la fede in questo Paese», ha spiegato qualche giorno prima delle elezioni.
Nel suo precedente mandato Trump ha dimostrato di avere tutto l’interesse a mantenere vivo il rapporto con le confessioni cristiane, e non ha risparmiato inviti pubblici, incontri con pastori, preghiere nello Studio ovale; non c’è motivo di dubitare che, anche a questa tornata, continuerà a coccolare una componente in grado di garantire – con lui o, forse, al posto suo – un portato di valori tradizionali a cui attingere per aggiustare l’America: “Trump will fix” (Trump aggiusterà) è stato uno dei motti scelti per la campagna elettorale, e non è difficile capire che ogni costruzione solida parte da fondamenta salde.
Stando alle parole spese finora ci sono quindi buone possibilità che il secondo quadriennio di Trump sia davvero segnato dal Christian power ipotizzato dal NYT; la cerimonia del 20 gennaio, con i suoi passaggi e i suoi messaggi, sarà una prima cartina di tornasole per valutare il reale peso delle sue intenzioni.
foto: nytimes.com