Gran Bretagna, il dilemma tra biologia e identità di genere

By 6 Maggio 2025Esteri, Focus

Donne si nasce, si diventa o si sceglie di essere? Attorno a questo quesito, e ai suoi corollari, ruota buona parte del dibattito politico progressista degli ultimi anni, tra battaglie per i diritti, quote contese, bagni da rivedere, performance sportive da rivalutare, in un tutti contro tutti dove le alleanze tra i vari gruppi si creano e si dissolvono con una certa rapidità.

Ultima occasione di polemica è stata la sentenza della Corte suprema del Regno Unito, sollecitata a esprimersi su un caso piuttosto emblematico che – per comodità – potremmo riassumere parafrasando Lucio Battisti: cosa vuol dir “sono una donna”, ormai? Ossia: quali sono i criteri per definire, ufficialmente, che una persona è, a tutti gli effetti, una donna?

Il problema se lo sono posto le femministe dell’associazione For Women Scotland, dopo che il governo scozzese ha deciso di includere le donne trans nelle quote rosa, quelle che garantiscono la gender equality (l’equilibrio di assuzioni tra uomini e donne), togliendo quindi posti alle donne nate tali.

La causa è arrivata fino alla Corte suprema, che ha sancito e argomentato il concetto di sesso biologico: la corte ha confermato che la legislazione britannica offre alle persone transgender “piena protezione” dalle discriminazioni, ma sancisce altresì che nell’Equality Act, la normativa in discussione, il termine “donna” si riferisce “alla donna biologica” e non può essere applicato a chi ha seguito un percorso, per quanto certificato legalmente, di cambiamento di genere (la sentenza è qui).

La sentenza è stata criticata da più parti, e la sintesi delle proteste è stata ben riassunta – non si sa quanto involontariamente – da una rubrica di satira della Stampa (“la sentenza della corte suprema britannica discrimina le persone transgender in base al sesso di nascita”), ma anche da Umberto Galimberti, che invece un comico non è: «quello che più infastidisce della sentenza presa all’unanimità dalla Corte suprema di Londra è l’assunzione del dato biologico come unico criterio per stabilire la distinzione di genere», ha scritto lo psicoanalista. E sul genere si sofferma anche l’obiezione di Chiara Saracino: «Appiattire il genere sul sesso è una forma di indebita naturalizzazione astorica e asociale degli esseri umani, che sono invece esseri sociali, storici, capaci di cambiare se stessi e le proprie circostanze», scrive sulla Stampa.

Sul fronte femminista, ma anche tra i conservatori, si esprime soddisfazione e, forse, sollievo per una disfida colta da molti come surreale. Del resto «quando è messa alle strette dalla logica, dalla biologia e dal diritto cosa volete che dica una corte suprema?», ha commentato Giuseppe De Filippi del Foglio. «E non poteva finire diversamente, perché la corte non avrebbe potuto stabilire altro che l’ovvia definizione di donna secondo biologia e caratteri sessuali. Il resto è una questione culturale, importante e aperta, e che ha a che fare con scelte individuali e quindi riservate alla sfera personale e pienamente libere. Ma si può essere liberi per sé stessi, ed è un bene che le leggi lo consentano, ma non si può stabilire cosa gli altri vedono in noi stessi».

È l’ormai annosa questione della percezione di sé che, fatalmente, si scontra con la realtà: «quando si entra in rapporto con l’altro finisce il totale arbitrio che ciascuno di noi ha sulla costruzione della propria persona e della propria immagine», continua De Filippi, «e si entra in un terreno condiviso, dove la regola fondamentale è la libertà nel giudizio, nella percezione e nella definizione che vengono dall’altro. In questo schema cosa volevate che dicesse una corte suprema?».

foto: la7.it

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