Dramma familiare per il cantautore Nick Cave: il figlio Jethro è morto a 31 anni in circostanze poco chiare. Il dramma segue di alcuni giorni il rilascio di Jethro dal carcere, dove era stato trasferito dopo aver aggredito sua madre. Una vicenda controversa come, del resto, il percorso umano di Nick Cave, che nel 2015 aveva già perso un altro figlio, l’allora quindicenne Arthur, caduto dalle scogliere di Brighton.
Il Giornale ripercorre la vita dai toni maudit di Cave, dal periodo della tossicodipendenza – che ha ispirato i lavori più oscuri della sua discografia – al trasferimento in Portogallo, “anni meno claustrofobici”, che ha fruttato i lavori meno disperati, anche se i testi “avevano continuato a essere densi di riferimenti biblici, martellanti come un’ossessione”.
«È difficile in queste ore sottrarsi all’idea di accostare il destino di Nick Cave al Libro di Giobbe, il patriarca che il Signore implacabile del Vecchio Testamento sottopone a dolori e sofferenze senza fine», scrive ancora Andrea Dusio. Di Cave viene ricordata la passione giovanile per l’Antico Testamento: «parlava a quella parte di me che inveiva, sibilava e sputava contro il mondo», ha raccontato l’artista in seguito; «credevo in Dio, ma credevo anche che Dio fosse maligno e se l’Antico Testamento era testimonianza di qualcosa, era testimonianza di questo. Il male sembrava vivere vicino alla superficie dell’esistenza. Era un libro meraviglioso e terribile, ed era una sacra scrittura».
La prospettiva di Cave cambiò quando, «a metà degli anni Novanta, un prete anglicano diede al musicista da leggere il Vangelo di Marco. Era la prima volta che avvicinava il Nuovo Testamento, di cui aveva sempre diffidato… Un album in particolare, The Boatman’s Call, racchiude la nuova visione di Nick, il suo ravvicinamento alla fede dopo anni di apostasia. “Non credo in un Dio interventista“, recita il verso più celebre di quella raccolta».
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