Per volonta’, non per disperazione
da un articolo di Itamar Marcus e Barbara Crook(1)
“Ho sempre desiderato essere la prima donna a sacrificarsi nel nome di Allah. La mia gioia sara’ completa quando le parti del mio corpo voleranno in tutte le direzioni”. Sono parole della terrorista suicida palestinese Reem Reyashi videoregistrate poco prima che uccidesse quattro israeliani e se stessa, un paio di settimane fa al passaggio di Erez fra Israele e striscia di Gaza.
Cio’ che sorprende, in questa terrificante dichiarazione, e’ la sottolineatura in termini positivi della propria morte e dello smembramento di se stessa indipendentemente dall’obiettivo di uccidere altre persone. Reem Reyashi era stata indotta ad agognare cio’ che i palestinesi chiamano “shahada”, la morte per Allah (Dio). Reem Reyashi aveva due obiettivi distinti: uccidere ed essere uccisa. Questi due obiettivi separati, entrambi positivi nella sua mente, erano piu’ importanti dei doveri e dei legami emotivi con i suoi due bambini.
Tale aspirazione alla morte, che contraddice il fondamentale istinto umano alla sopravvivenza, sta al centro del fervore del terrorismo suicida. Solo quando questo culto della morte verra’ riconosciuto come uno dei principi cardine che compongono il credo palestinese, sara’ possibile comprendere la sfida posta a Israele e a tutto il mondo dal terrorismo suicida.
La societa’ palestinese promuove attivamente la convinzione religiosa che la divinita’ voglia la morte del credente. Si considerino le parole di una canzone popolare in un video rivolto ai bambini, trasmesso centinaia di volte dalla televisione dell’Autorita’ Palestinese, che parla della sete della terra per il sangue dei bambini. Dice: “Come e’ dolce il profumo degli shahid [martiri], come e’ dolce la fragranza della terra, la sua sete si placa con il fiotto di sangue che sgorga dai giovani corpi”.
La convinzione che la divinita’ sia assetata e brami il sangue umano come un tributo e un sacrificio affonda le sue radici in credenze ancestrali. La Bibbia cita remote culture presenti in Terra d’Israele: “Sacrificavano agli dei i loro figli e e le loro figlie” (Dt. 12). Anche i figli d’Israele ne furono contagiati: “E costruirono altari per offrire i loro figli e le loro figlie a Moloc, cosa che il Signore non aveva comandato e neppure aveva considerato un abominio simile” (Ger. 32).
Il denominatore comune dei culti primitivi che prescrivevano sacrifici umani era la convinzione che la divinita’ voglia la morte di innocenti. E’ esattamente questa l’idea che i capi della societa’ palestinesi stanno inculcando nella loro gente. Di piu’, ai palestinesi viene insegnato dai leader religiosi che compaiono alla TV dell’Autorita’ Palestinese che lo scopo stesso della loro nascita e’ quello di morire per Allah: “Il credente e’ stato creato per conoscere il suo Signore, per difendere l’islam, per essere uno shahid [martire] e per cercare di essere uno shahid. Se il musulmano non aspira alla shahada [morte per Allah], egli morira’ nella jahiliya [fede pre-islamica]. Se invece invochiamo sinceramente il martirio da Allah, egli ci garantira’ la sua ricompensa anche se moriremo nel nostro letto”.
Per incoraggiare ulteriormente il processo di auto-annullamento, ai palestinesi viene insegnato che la morte per la divinita’ e’ lautamente ricompensata: “Tutti i suoi peccati sono perdonati dal primo fiotto di sangue, egli sara’ esentato dai tormenti del Giudizio… si unira’ a settantadue giovinette dagli occhi scuri… sul suo capo sara’ posta la corona dell’onore, della quale una sola pietra vale piu’ di tutto cio’ che c’e’ in questo mondo”.
I bambini non sono risparmiati dall’indottrinamento. Un esempio evidente e’ quello del quattordicenne Faras Ouda, un ragazzo innalzato agli altari dell’eroismo dalla dirigenza palestinese. Yasser Arafat addita continuamente il modello Faras Ouda ai bambini palestinesi: una volta rivolgendosi a loro in televisione come ai “compagni, amici, fratelli e sorelle di Faras Ouda”; un’altra dicendo loro: “la vostra generazione e’ rappresentata dal vostro compagno, l’eroe martire Faras Ouda”; un’altra volta ancora esclamando: “Salutiamo lo spirito del nostro eroe martire Faras Ouda, Faras Ouda, Faras Ouda”. Per quale impresa Faras Ouda diventa il modello assoluto proposto da Arafat ai bambini palestinesi? Il suo scopo nella vita era morire per la divinita’. Come scrisse il quotidiano dell’Autorita’ Palestinese Al-Hayat Al Jadida: “Il giorno della sua morte, Faras Ouda lascio’ la sua casa con una fionda, dopo aver preparato con le sue mani una corona funebre decorata con le foto di se stesso e con la scritta: il coraggioso shahid Faras Ouda”. Dunque Faras Ouda voleva morire per la divinita’, ci riusci’ e cosi’ divenne l’eroe di Arafat.
Alle madri palestinesi e’ stato insegnato a desiderare la morte per Allah dei loro figli. Una madre ha recentemente spiegato alla tv dell’Autorita’ Palestinese perche’ aveva esultato alla notizia della morte del figlio: “Una madre grida di gioia perche’ ella vuole che egli compia il martirio. Egli diventa un martire per Allah l’Onnipotente. Io volevo il meglio per mio figlio, e questo e’ il meglio per il mio figlio martire”.
L’ideologia corrente dell’Autorita’ Palestinese ribalta la scala di valori tipica di altre societa’. Ecco come si e’ espresso Issam Sissalem alla tv dell’Autorita’ Palestinese: “Noi non abbiamo paura di morire, noi non amiamo la vita”.
I bambini palestinesi hanno imparato a considerare la morte per la divinita’ come il supremo obiettivo della loro vita. In un’agghiacciante intervista alla televisione dell’Autorita’ Palestinese, due ragazzine di undici anni hanno spiegato serenamente e in modo eloquente cosa desiderano loro e le loro amiche: “Walla: Il martirio e’ molto, molto bello. Tutti aspirano al martirio. Cosa puo’ esserci di piu’ bello che andare in paradiso?. Conduttore: Cosa e’ meglio, la pace con pieni diritti per il popolo palestinese o il martirio?. Walla: Il martirio. Yussra: Naturalmente il martirio e’ dolce. Noi non vogliamo questo mondo, noi vogliamo l’Aldila’. Tutti i bambini palestinesi, per esempio di dodici anni, dicono: O Signore, vorrei diventare un martire”.
I sondaggi confermano che Yussra e Walla rispecchiano la stragrande maggioranza dei bambini palestinesi. Secondo tre diversi sondaggi d’opinione, tra il 70 e l’80 percento dei bambini palestinesi aspirano al martirio. Nel mondo arcaico era diffusa la convinzione che la divinita’ volesse la morte di esseri umani come estrema forma di venerazione. La gente offriva i propri figli a Moloc e a Baal. Queste antiche credenze tornano oggi ad infestare il mondo.
Il mondo ha dato per scontato che il terrorista suicida palestinese sia una persona che ha dovuto scegliere tra due “valori” opposti: uccidere ebrei o preservare la propria vita. Purtroppo non e’ cosi’. Per il terrorista suicida, uccidere ebrei e’ senz’altro un “valore”, ma la morte per la divinita’ e’ a sua volta un valore in se stessa, un valore piu’ importante della vita. Si va incontro alla shahada, al martirio, non per disperazione, ma per aspirazione. Come ha spiegato la madre che gioi’ per la morte del figlio: “Io volevo il meglio per lui”.
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(1) Notizie su Israele 219.
(Jerusalem Post, 29.01.04 – israele.net)