Ci sono film che raccontano storie e film che sono storie. Il film del regista danese Carl Theodor Dreyer (1886-1952) dedicato alla vita di Gesù è una storia nella storia, che ora anche il pubblico italiano può scoprire grazie al lavoro di Iperborea (Gesù. Il film di una vita. Iperborea, 2023; 432 pp, 19.50 euro). Il film, mai girato, era diventato un’ossessione per Dreyer, che ha scritto e aggiornato la sceneggiatura per oltre trent’anni, immaginando dialoghi e ambientazioni, senza riuscire però mai a fissarla su pellicola.
Di questo film, si diceva, possediamo solo la sceneggiatura, che tuttavia non è un semplice canovaccio ma si presenta quasi come un romanzo, un romanzo che si fa leggere e immaginare come una pellicola, dove i dialoghi si alternano a corsivi che contestualizzano, spiegano, inquadrano.
Nel Gesù di Dreyer prevale l’aspetto umano, più che divino; i suoi miracoli vengono spiegati appoggiandosi ad alcune teorie del primo Novecento e la sua cifra è, prevalentemente, la comprensione, l’inclusione, il dialogo: nella prospettiva di Dreyer gli stessi farisei non sono ostili ma aperti, mentre i discepoli sono talvolta smarriti e pensosi, ma sempre affascinati e sopraffatti dalla figura di un maestro così speciale.
Dreyer testimonia un’ampia conoscenza della Bibbia e una prospettiva evangelica, probabilmente mutuata dal retaggio familiare (il padre era pastore luterano), e pagina dopo pagina troviamo tratteggiate le ambientazioni, spiegati usi e costumi, annotate le convinzioni del regista mentre nel racconto si alternano cronaca e parabole, che spesso si intrecciano e si fondono tra carrellate e dissolvenze.
La lettura è godibile e, al netto di alcuni incisi personali del regista e di qualche adattamento necessario alla resa cinematografica, risulta ragionevolmente fedele al racconto dei Vangeli; certo, può sorprendere l’assenza di alcune scene bibliche note al grande pubblico, ma la prospettiva seguita da Dreyer non è didascalica e, anzi, segue e testimonia una profonda motivazione: il suo Gesù non è un guaritore, non è un rivoluzionario, non è un profeta ma il figlio di Dio che compie il disegno divino.
Sullo sfondo del lavoro di Dreyer, una fetta di Novecento particolarmente turbolenta, che nel progetto del regista doveva marcare le similitudini tra le due epoche: nell’incedere del racconto, più ci si avvicina alla Passione e più si moltiplicano i paralleli tra la dominazione romana del primo secolo e quella nazista sulla Danimarca degli anni Quaranta. Non a caso infatti Dreyer, in base a questa trasposizione, si mostra comprensivo delle ragioni dei farisei e perfino dei rivoluzionari, mentre attribuisce tutte le colpe ai romani, a costo di forzare il racconto o talvolta di riscriverlo in certe sue parti.
Dreyer sceglie di chiudere il racconto con la morte di Gesù. Una decisione evidentemente ragionata, compensata da un messaggio finale in cui il regista sottolinea che “il suo corpo furono ucciso, ma il suo spirito vive”. In questo modo Dreyer, al netto di implicazioni teologiche che probabilmente sentiva distanti, lascia sullo sfondo il miracolo definitivo per concentrarsi su quello che per lui era il cuore del messaggio evangelico, “la buona novella di amore e carità” trasmessa e resa disponibile agli uomini di tutto il mondo e di ogni epoca. Un messaggio di cui, rileva Goffredo Fofi nella postfazione, Dreyer indica “l’attualità e la perennità”, e che può “incidere nell’animo e nella mente dello spettatore”.
Il libro:
Gesù. Il film di una vita.
Carl Theodor Dreyer
Iperborea, 2023
432 pp, 19.50 euro