
«Il mio nome è Ayrton e faccio il pilota», cantava il compianto Lucio Dalla ricordando il mito della Formula 1 di cui, in questi giorni, ricorrono i trent’anni dalla scomparsa. Tutti i giornali ricordano di quella domenica pomeriggio a Imola. Già le prove dei giorni precedenti avevano dato segnali poco rassicuranti tra incidenti e tragedie, ma la Formula 1 non si ferma mai, il rischio per i piloti è un mestiere e il mestiere un rischio calcolato. Senna, campione brasiliano, faccia da bravo ragazzo, era sulla sua Williams, pronto per l’ennesima sfida dopo tre mondiali vinti con la McLaren. Sul circuito di Imola quella sfida, come noto, sarebbe sfociata in un dramma: Senna si schianterà contro la curva del Tamburello, segnando «l’epilogo di una delle più affascinanti, intense e dolorose storie della Formula 1», scrive Stefano Mancini sulla Stampa.
Di Senna si è parlato molto, in passato, anche per la sua fede evangelica, di cui non faceva mistero, e che oggi i giornali rievocano. La Stampa dedica al dettaglio l’apertura dell’articolo: «Solo perché credo in Dio e ho fede in Lui non significa che sono immortale e immune dai pericoli. Ho paura di farmi male come chiunque altro, specie in Formula 1, dove il pericolo è costante», ricorda Stefano Mancini, richiamando una confidenza quasi profetica del pilota. Il Corriere, a propria volta, racconta di quell’ultima notte a Castel San Pietro, prima dell’ultima gara, tra presagi e dissapori familiari. Una notte comunque addolcita dalla fede: «la Bibbia sul comodino. Dio riusciva sempre a offrire un conforto, risposte, assoluzioni», ricorda Giorgio Terruzzi.
foto: Instituto Ayrton Senna